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"UE, la vecchia guardia ha capito che la novità Renzi serve a tutti"

9 aprile 2014

Intervista rilasciata a La Stampa 



Intervista alla Stampa%2C 20 marzo 2014Il più europeo degli uomini del nuovo governo, ha lavorato per anni alla Commissione di Bruxelles, conosce ministri in mezza Europa e proprio per effetto di questa conoscenza diretta degli umori nelle Cancellerie, Sandro Gozi può proporre questa lettura dell'esordio europeo di Matteo Renzi: «L'Europa sente il bisogno di storie di novità, che mancano da anni: Tony Blair non c'è più, Angela Merkel è al terzo mandato e uno dei problemi dell'Unione è proprio quello di nuove leadership. Di questo si rendono conto a Berlino e a Parigi: scommettono su Renzi, anche per dimostrare alle proprie opinioni pubbliche che hanno partner che vogliono cambiare le cose».

Quaranticinque anni, romagnolo, Sandro Gozi da sottosegretario alla Presidenza svolgerà le funzioni da sempre esperite dal ministro per gli Affari europei, incarico ottenuto sulla scorta di un curriculum pesante: esordio nella carriera diplomatica, funzionario alla Commissione europea con Prodi e Barroso, docente al Collegio europeo di Bruges, a Sciences Po Paris e nel New Jersey, già responsabile per l'Europa del Pd.

A Berlino e Parigi i due leader si sono mostrati curiosi e intrigati da Renzi, mentre gli establishment, come quello dei mass-media, restano diffidenti: è così?
«Impressione giusta. L'Italia sta impostando una fase politica di cambiamento profondo e questo viene percepito immediatamente dal livello politico, più sensibile alle azioni concrete. Ed è naturale che questa ventata di novità possa lasciar un po' spiazzata l'alta burocrazia europea e degli Stati membri. Per loro il migliore dei mondi possibili è avere capi di governo e ministri degli Esteri che si limitano a ricordare il da farsi seguendo i vincoli europei. Noi vogliamo mettere le nostre competenze al servizio del cambiamento della politica europea».

Non è presto per compiacersi di un effetto-Renzi in Europa?
«Una testimonianza diretta: martedì nella riunione del Consiglio Affari Generali dell'Unione che precede sempre i vertici europei, sulla politica industriale molti mi hanno sostenuto non perché conoscevo diversi di loro, ma perché ho avuto la netta sensazione che l'essere il sottosegretario di un capo di governo già così presente come Renzi li abbia favorevolmente condizionati».

Dopo gli incontri da Berlino e Parigi che segnali sono arrivati?
«La cosa più importante detta dalla Cancelliera Merkel è che le riforme strutturali serie si valutano su un arco di 2-3 anni. È la controprova del fatto che si guarda con serietà al nuovo governo. Per quanto riguarda Hollande posso dire che il Presidente ha ricevuto una impressione estremamente positiva dell'incontro con Renzi. I francesi sono convinti che si possa fare assieme un ottimo lavoro e intendono coordinarsi con noi prima di tutti i Consigli europei e anche sui piani nazionali di riforme».

A Berlino sí è consumato uno scambio: un po' di flessibilità sul deficit in cambio di riforme realizzate e non solo promesse?
«Per fare le riforme non dobbiamo scambiare o farci autorizzare da nessuno. Dobbiamo farle perché servono all'Italia e all'Europa. Quel che sarà necessario lo valuteranno il presidente del Consiglio e il ministro dell'Economia, in particolare come utilizzare quello spazio tra il 2,6 e il 3%. Ma su questo aspetto occorre fare più chiarezza».

In che senso?
«Su questa vicenda finora è stata data dalla Commissione europea una interpretazione molto restrittiva, mentre è del tutto evidente che, in particolare nel periodo di transizione in vista della piena operatività del Fiscal Compact, il 1 gennaio 2016, sono plausibili interpretazioni diverse e più flessibili».

Come ha trovato il contenzioso con Bruxelles?
«Sono preoccupato. Le procedure di infrazione di recente sono aumentate, passando da 100 a 119 e prevedo che ne arriverà un'altra ventina. Il Dipartimento degli Affari europei finora ha rimandato i dossier alle singole amministrazioni. Corretto dal punto di vista teorico, ma ora il Dipartimento deve recuperare un ruolo di accompagnamento, stimolo e concertazione. Bisogna assolutamente invertire questa preoccupante tendenza».


di Fabio Martini

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